martedì 25 ottobre 2011

[Occupy Barabba] Suora!

di Benedetta Torchia Sonqua

E niente. Lunedì vado su internet e leggo una cronaca corretta di eventi. Rileggo e penso porcazzozza. Davvero porcazzozza, ero lì. Ero tra quel gruppetto. Avevo pure il passeggino (è rosso, eh) e la bimbetta di diciotto mesi. Non è mica un caso. C’ero proprio. Solo che non m’è venuta la voce rotta. Nemmeno m’è venuto in mente di telefonare a nessuno. Che poi non ho avuto il tempo; sono dovuta andare a recuperare l’altro figlio che l’avevano deviato e fermato al circo massimo e ci ho impiegato due ore. Almeno stava con le attrici belle del teatro valle occupato, diceva lui al telefono.

Quello che mi ricordo è uno che urlava.

Suora!

Niente. Forse è una suora sorda. Bello il giardino. Così vicina non c’ero mai stata. Con la mano aperta, in aria, a mostrare il palmo vuoto e la schiena appoggiata tra le sbarre del cancello.

Ma la suora è di spalle. Non guarda. Grida di nuovo: Suora! Niente. La suora riempie un secchio di acqua per annaffiare le rose più in là. Oltrepassa l’arco, dondola sull’acciottolato e se ne va. Un uomo in giacca e cravatta da lontano sembra avvicinarsi. Alzo di nuovo il palmo della mano. Mi sembra un gesto semplice. Non si avvicina. Ha paura di dover dire no. Allora continuo a tenere il palmo in aria. Più per farlo sentire in colpa che per nutrire speranze.

Di fianco, di nuovo: Suora!

Insieme a me un bimbetto della stessa età di mia figlia. Col ciuccio. Il padre lo tiene in braccio. La mamma ha il passeggino e lunghi capelli neri e cerca un varco. Due vecchie. Una ragazzina con la a di anarchia dipinta sulla maglia. Tre danzatori della mala murga. Un gruppo di giovani donne. Alcuni uomini. Un ragazzo un po’ brillo che è arrivato correndo e un po’ seccato per essersi dovuto alzare di corsa dal tavolino del bar di fronte.

Iniziano a evocare i fantasmi della partita di calcio in cui tifosi morirono schiacciati sui cancelli. Ma non è quella la situazione. Però il numero di considerazioni di buon senso prodotte è direttamente proporzionale al moltiplicarsi del livello di ansia. Lo so come vanno queste cose. Mia madre era bravissima in questo sport. Ogni minuto secondo che qualcuno tardava, il guaio o la disgrazia accaduta cresceva in modo esponenziale fino a raggiungere la portata di un buco nero che avrebbe inghiottito la terra. E, dunque, alla fine degli sproloqui, il verdetto era che noi saremmo stati sicuramente destinati a morire infilzati dal cancello oltre il quale la suora annaffiava le rose.

Invece, era solo un momento che non si poteva andar via. Si poteva solo aspettare.

Poi pfffff. Il suono inconfondibile del lacrimogeno, prima dell’odore. Stac. Stac. Stac, il suono inconfondibile di roba che cade sui caschi. Booom, il suono delle bombe carta, dei petardi. Poi di nuovo pffff.

Incappucciamo i bambini. Ma sto bene attenta a non coprire il mio volto. Non voglio che si sbaglino. Dalle sbarre del cancello arriva l’aria fresca e pulita del giardino disabitato. Per sbaglio siamo al riparo dai fumi dei lacrimogeni. Ce li vediamo sfilare davanti. Anche gli idranti. Ci sfiorano, quasi, ma siamo fuori tiro, in tutt’altra direzione, ancora e per adesso. Fa paura il rumore e la corsa. Il suono della violenza non mediata dalla televisione o dalla narrativa cinematografica fa davvero paura.

Non è una colpa avere paura. Non è mica detto che uno debba necessariamente abituarsi a scendere in piazza sapendo di dover gestire questa paura. E invece è quello che sta succedendo: vado in piazza ripassando a memoria le istruzioni per non finire nei pasticci, col numero di telefono del legal team scritto a penna sul braccio perché non si sa mai.

Ma avere paura non è una colpa. E’ per questo che hanno iniziato a strillare perché la suora aprisse. Hanno iniziato a chiedere notizie del dio che era contenuto nei giardini della basilica, hanno iniziato a domandarsi quale dio pregasse la suora. Hanno iniziato a insultare i modi farisei di quelli oltre il cancello.

Li guardavo un po’ di sbieco perché non mi sembrava il modo migliore per convincere qualcuno a concedere un varco, una via di fuga. Bisognava aver pazienza. Solo quello. Per la piazza o per il cancello, una via valeva l’altra e in entrambe i casi c’era da aspettare. I bimbi erano buoni e zitti. Lo sanno loro, per istinto, quando si deve star buoni e aspettare. Da adulti, invece, si perde l’istinto e ci si deve allenare per tornare a far le cose giuste.

Ma l’invocazione proseguiva.

Almeno per donne e bambini.

Assumeva via via la ritmica della litania.

Almeno le persone più sofferenti. Almeno le vecchie. Almeno noi che siamo innocenti.

Niente. La domanda ricorrente cercava il dio che impedisce di prendersi la responsabilità di concedere un riparo in giardino.

L’unica salvezza sembrava andare oltre il cancello.

Che è alto. Molto alto. Ed era circa un’ora che molti guardavano le lance appuntite con cupidigia: qualcuno avrebbe voluto scavalcare e poi far passare i bambini.

Io non scavalco. Sono contraria. Non voglio fare irruzione da nessuna parte. Non voglio calarmi su territorio straniero e mi trovo a dover giustificare la persistente - e per i più incomprensibile- chiusura del cancello: è territorio vaticano. Un custode non aprirebbe mai proprio sulla piazza degli scontri. Hanno aperto giù, la chiesa, più avanti. Non sanno chi siamo e non lo sappiamo neanche noi.

Eppure basta pazientare ancora un momento e provare a guadagnare la strada non appena si alza un po’ il fumo. I lacrimogeni sono scaduti, forse, non danno troppo fastidio, solo fumo e puzza. Le cariche sono ancora lontane, in fondo. Basta smettere di sperare nel cancello, dargli le spalle e guardarsi d’intorno.

La paura ormai ha spento tutti i collegamenti neurologici. Ma non è questo a disturbarmi. La paura è comprensibile.

Siamo incastrati. Lo sappiamo io e la mia bimba ma ce ne facciamo una ragione. Alla prima avvisaglia siamo pronte a spostarci a destra, verso il muretto o a sinistra, sotto le colonne,ma con calma senza correre e senza dare le spalle al fronte delle linee dove la guerriglia sta agendo da sola.

A stonarmi è questa atavica e storica e inconscia speranza che la salvezza debba venire dalla suora, dal prete, dagli uomini di chiesa. E’ questa recondita credenza del dio buono capace di sciogliere il cuore di chi è pagato per custodire i giardini e annaffiare le rose. E’ questa primitiva convinzione che essendo innocenti e nel giusto gli altri agiscano naturalmente di conseguenza. Ma non è questa la nostra storia recente.

E’ questa inconsapevole involuzione della ragione nella credenza che mi urtica. E’ la stessa innocenza che ci spinge ad accettare le scelte che capi comunità, capi partito, capi religiosi e cape di cazzo compiono per noi abbindolandoci con il dono di un mondo migliore costruito a loro immagine e somiglianza. E’ questo che mi fa sentire quanti frammenti di idee esplodano ora in piazza, a quanto lavoro ci sia ancora da fare per trovare una strada che possa essere accettabile per tutti. E’ questa la misura con cui penso a quante parti di noi dovranno soffrire accettando il debito, le tasse, la rivoluzione, il ritorno alla lira o la sudditanza ai mercati globali, le proposte assurde e i giullari di turno. Perché in fondo quello che ancora si deve fare è riuscire ad affrancarsi dalla mitologia che ci è rimasta addosso e che ci fa sentire la nostalgia delle favole e di universi arcaici.

Aspettare la salvezza dalla suora non è la salvezza per me. Scavalcare il cancello in mocassini non è una buona idea. E’ solo un modo per scoprire che l’idea di giustizia e salvezza con cui si scende in piazza non esiste. Per te e i tuoi mocassini, per le tue a di anarchia, per la sensazione esotica di manifestare insieme al resto del popolo, per la voglia di raccontarlo agli amici; per te, così si compie la tua salvezza. Ti è servito forzare un cancello.

“Il riparo dalla violenza è stata una conquista non una concessione”: è questo il miracolo che si è compiuto per coloro che si aspettavano di essere salvati e invece si sono dovuti salvare da soli.

Io e il mio cinismo dobbiamo, purtroppo, cercare un’altra occasione.

Mi sposto di un metro. Aspetto. Se il fronte si gira verso di me mi metto seduta e aspetto, coi palmi vuoti rivolti verso l’alto. Così come ho fatto altre volte. E’ più di due ore che furoreggia battaglia. Se avessero voluto reprimerla senza badare a chi ci fosse in mezzo, sarebbe già finita.

Due minuti dopo mi vengono a prendere. Si è aperto un varco dietro i cordoni della polizia e un amico mi conduce via lungo il colonnato della basilica. Mi trascino le due vecchie - che quelle scavalcare proprio non è il caso- ed esco dalla piazza. Sembra impossibile che prima ci fosse una festa.

E un miliardo di domande mi frulla in testa. Come ogni volta che non ci si sottrae all’impatto degli eventi e che non si scappa perché si rimane presenti a se stessi. E mi interrogo ancora su quale sia il soggetto contro cui indignarsi se ancora m’aspetto di essere salvato da dio e non sento di avere il diritto ad uscire incolume dalla contestazione.

Ecco a me è dispiaciuto che si siano fatti male scavalcando e che solo dopo siano stati soccorsi e rifocillati dalla suora. Ma credo davvero che si sia compiuto un miracolo per quelli che si aspettavano d’essere salvati e che invece hanno scavalcato. Davvero senza ironia.

E la suora, se avesse ascoltato, se si fosse girata al primo richiamo, se si fosse avvicinata a parlare sarebbe stata solo una donna che rispondeva alla propria coscienza. Invece, ha portato l’acqua dopo che s’erano fatti male per approfittarne e rafforzare la finzione del simbolo che ha scelto di rappresentare.

Suora: non te l’ho voluta dare questa soddisfazione. Me ne sono andata quando ho potuto. Suora, le rose sono bellissime. Si vede che la sai portar bene l’acqua. Poi in fondo, se mi fossi arrampicata, avevo anche il terrore che quell’acqua me l’avresti lanciata addosso a secchiate.

Comunque, alla fine, neanche il diluvio del giovedì è servito a convertirmi.

[Occupy Everything. Occupy Barabba.]

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