martedì 18 ottobre 2011

Il maestro

(di lo scorfano)

Lo chiamavano senz'altro il «maestro», in paese, a Pieve di Soligo. Ma non come si fa con i registi e i direttori d'orchestra: lui, Andrea Zanzotto, lo chiamavano il «maestro» perché era quello che aveva fatto per tutta la vita, senza interruzioni: il maestro elementare. L'uomo di paese, ma un po' più colto degli altri, che insegnava ai bambini, figli del suo dialetto e della sua campagna, a non sbagliare le insidiose doppie della lingua italiana, quelle che tutti i veneti, prima o poi, sbagliano.

A Pieve di Soligo ci era nato, nel 1921, e da lì non se ne era mai andato. C'era stata la guerra, quando aveva vent'anni; ed era venuto a un certo punto il momento della Resistenza. E lui aveva scelto la Resistenza e l'aveva fatta, come gli era sembrato giusto. Poi, però, nient'altro: una biografia vuota. Fatta soltanto di doppie insegnate ai bambini e di poesie. E del paesaggio veneto, trevigiano, di cui tutte le sue poesie, come il dialetto dei bambini, si nutrivano.

Ma il paesaggio non basta a se stesso. E fin da subito, fin dalla prima raccolta pubblicata, la poesia di Andrea Zanzotto è diventata poesia che scava dietro il paesaggio, poesia sulle parole che lo raccontano e raccontano il nostro modo di raccontarcelo. E da quel punto, da quella inevitabile scelta, è partita tutta un'altra biografia, tutta un'altra storia che in fondo è la vera biografia di Andrea Zanzotto. Una storia di lotta e di amore, contro le parole e per le parole. Una storia che passa attraverso la scomposizione dei segni alfabetici, la rivoluzione e la frantumazione del linguaggio, la necessità di farlo a pezzi, anche con la violenza dell'iconoclasta, per poi rimontarlo, sillaba per sillaba, verso per verso, nelle sue pagine di poeta vero.

La decifrazione dei segni che raccontano il mondo ha attraversato, nella vita di Zanzotto, tante raccolte e tante fasi: le storie della letteratura le riepilogano con acuta precisione, non è proprio il caso di rifarlo qui. Ma c'è un momento di questa sua storia che non si può tacere: ed è Filò, la riscoperta improvvisa, il dialetto che ritorna, forse quello infantile dei suoi bambini, il «vecio parlar» con cui, a un certo punto, gli è sembrato possibile resistere al sempre più incontrollato vociare del mondo, della modernità, della massificazione dei media in preda all'isteria della comunicazione casuale. Il dialetto è stata una delle ultime forze di Zanzotto. Non una partenza ma un ritorno: a una terra, Pieve di Soligo, da cui il poeta «maestro» non se n'era mai voluto andare.

E a pochi chilometri da Pieve di Soligo, oggi, 18 ottobre, il poeta maestro elementare senza biografia è morto, pochi giorni dopo avere compiuto novant'anni. Qualcuno, molto lontano da Zanzotto e dal suo paesaggio di colline venete, ha detto che la poesia è prima di tutto «riflessione sul linguaggio»; e quindi, di conseguenza, riflessione sui modi che abbiamo di conoscere il mondo e di raccontarlo e di percorrerlo con lo sguardo e le parole. Se è davvero così (e lo è, almeno parzialmente: ma qualsiasi definizione di poesia è di necessità sempre parziale), allora il Novecento italiano ha avuto in Andrea Zanzotto il suo massimo indagatore delle molteplici forme di ogni umano (e sovrumano) parlare. Ed è quindi per questo che, da oggi, il suo definitivo silenzio di ultimo grande poeta del secolo scorso è destinato a farci sentire che Andrea Zanzotto, maestro, ci mancherà.

1 commento:

  1. Zanzotto riporta la mia mente ai luoghi nei quali sono cresciuta e dove ho tanto vissuto.
    Mi ricorda che la mia terra d'origine è capace di produrre cose buone... oltre a tante cose che non vanno.
    Dispiace che gente come lui non ci sia più.
    Come lui e come Meneghello e Rigoni Stern

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